Erri De Luca spiega il razzismo a Salvini con la logica coloniale #Milapersiste

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di Mila Mercadante #Milapersiste twitter@milapersiste #ErriDeLuca

 

Diversi anni fa conobbi Erri De Luca di persona perché mi concesse di intervistarlo. L’incontro durò circa due ore e ne conservo un ottimo ricordo. Non riesco a collegare le parole, lo sguardo di quell’uomo mite e riservato, la sua evidente esigenza di oggettività con la paradossalità di certe sue affermazioni attuali. Un suo articolo apparso su La Repubblica il 30 ottobre, dal titolo “Il razzismo spiegato a Salvini”, stupisce non poco per la contraddizione profonda e inconsapevole delle argomentazioni. De Luca appartiene alla schiera dei difensori del seme dell’umanità e delle cause buone, è uno dei paladini dei sentimenti di giustizia e di verità che non si accorgono d’essere prigionieri di una ragione che è totalmente strumentale e che si guarda bene dal prendere una posizione netta e inequivocabile contro il capitalismo. La spinta verso l’uniformità e la chiusura che costituisce senza dubbio il terreno fertile dell’intolleranza viene contrastata mettendo al centro della scena l’immigrato come forma-merce e così si finisce col proporre un’altra specie di barbarie. Erri De Luca per rendere omaggio all’antirazzismo ottiene un risultato che sconcerta e atterrisce. Il titolo dell’articolo diventa comico e gli si ritorce contro: il razzismo a Salvini in effetti lo spiega benissimo, nel senso che contrappone il razzismo dell’inclusione a quello dell’esclusione ma sempre di razzismo si tratta, perché la variante dell’inclusione incorpora lo straniero sulla base di una gerarchia stabile, che è quella tipica del suprematismo dei bianchi. Ecco uno stralcio dell’articolo:

In economia la rinuncia all’impiego di manodopera immigrata a basso costo è atto di autolesionismo. L’Ungheria è il caso patetico di un governo costretto a obbligare per legge i propri connazionali a oltre 400 ore di straordinario all’anno per sopperire al deficit di forza lavoro. Da noi il supplichevole slogan <Prima gli italiani!> non riesce a convincere la nostra manodopera a lavorare nei campi a tre euro all’ora dall’alba al tramonto. […] Gli imprenditori agricoli si trovano costretti malvolentieri a impiegare i secondi, i terzi, visto che i primi non si presentano. Stesso insuccesso si riscontra per il gran fabbisogno di badanti a sostegno della nostra popolazione, diventata la più anziana del mondo dopo la giapponese. Il razzismo induce a credere che da noi ci sia un’invasione di stranieri, mentre il fenomeno è perfettamente opposto: più di 5 milioni di connazionali sono iscritti nel registro dei residenti all’estero. La presenza di immigrati è di molto inferiore, dunque l’Italia è un paese in via di evasione”.

Il tentativo di contrabbandare l’utilitarismo e lo sfruttamento come equivalenti della vicinanza umana e dell’antirazzismo fallisce miseramente. In pratica lo scrittore – ripetendo concetti vecchi – dice che noi abbiamo bisogno di una forza lavoro che svolga mestieri umilianti, usuranti e sottopagati perché quei mestieri non li vogliamo fare. Braccianti agricoli e badanti vengono descritti secondo una logica prettamente coloniale: l’aspetto parassitario della nostra dipendenza dal “lavoro sporco” che gli immigrati svolgono rientra nell’orizzonte della giustificazione di un sistema violento fondato proprio sul pregiudizio razziale che si vuole criticare e condannare. Non è razzista il concetto secondo cui lo straniero può coesistere nella nostra società soltanto o soprattutto sulla base della subordinazione? Deve sostituirci laddove noi – pancia piena – rifiutiamo di cedere, deve riempire i vuoti che noi lasciamo emigrando. A parte il fatto che non è vero che gli italiani rifiutano i mestieri sottopagati, a parte il fatto che se si emigra significa che il paese è tornato indietro, la domanda che farei a De Luca è: che cosa sono le vittime del caporalato o le badanti secondo il suo ragionamento? Eccezioni alla promessa di uguaglianza?

L’immigrazione non ha i caratteri dell’invasione ma in questo tempo di minacce continue e di crisi perenne ha comunque alimentato la questione identitaria a destra e per contro ha dato alla sinistra moribonda un’occasione per occuparsi ancora degli ultimi, visto che la scissione dalla classe operaia e dai problemi di chi si sente schiacciato da mercatismo, disoccupazione e impoverimento progressivo sembra irreparabile. C’è stato un tempo buono in cui per la sinistra la questione nazionale era considerata fondamentale per lo sviluppo dell’autodeterminazione, dell’uguaglianza, del socialismo; oggi lo Stato nazione è diventato l’emblema dell’intolleranza e la causa della violenza. Piuttosto che approfittare della grossa lacuna culturale e politica che impedisce da sempre alle destre di costruire una visione complessiva e finita dell’economia e della società, piuttosto che trovare il modo di costruire un progetto coerente, la sinistra ha abbracciato solo battaglie civili frammentarie come ambiente, femminismo, pacifismo, multiculturalismo, fino ad arrivare alla delegittimazione delle istanze della cittadinanza e dell’esperienza comune. Per tornare a De Luca, il suo tratto donchisciottesco è lo specchio in cui la sinistra deve guardare e riconoscersi: il modo in cui essa pensa e agisce non può offrire niente al paese.

 

 

(1 novembre 2019)

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